La lingua italiana è considerata tra le più complesse da imparare. La sua grammatica comprende: un numero più ampio di articoli rispetto ad altre lingue, diversi tempi verbali, verbi irregolari, plurali che non seguono la classica regola del solo cambio di desinenza.
Mi viene in mente la parola uovo, maschile al singolare, che diventa uova (femminile) quando passa al plurale. Ci sono le espressioni idiomatiche, modi di dire e motti di cui bisogna memorizzare il significato;
le preposizioni, sul cui utilizzo esistono ancora tantissimi dubbi. Se vi chiedessi, per esempio, dove comprare le sigarette, cosa rispondereste? Dal tabacchino? Al tabacchino? Dal tabaccaio? O alla tabaccheria?
E poi, ancora: apostrofi, accenti e chi più ne ha, più ne metta. Oggi voglio parlarvi dell’accento su sé stesso.
Accento acuto e accento grave: come usarli?
Prima di capire come usare l’accento in italiano, va precisato che esistono due tipologie di accento in uso:
- l’accento grave (dall’alto verso il basso)
- l’accento acuto (dal basso verso l’alto)
La regola generale prevede che quando una parola termina in a, i, o, u accentate, l’accento da utilizzare è quello grave; quando la parola termina in e e, quest’ultima, richiede l’accento, utilizzeremo il segno acuto.
Richiede sempre l’accento acuto la congiunzione causale ché sui composti perché, affinché, cosicché, giacché, poiché, ecc. Stessa regola vale per i composti di tre (ventitré, trentatré, ecc.) e di re (viceré).
Oltre a queste regole basilari bisogna tener conto della classificazione delle parole. In base alla sillaba sulla quale cade l’accento quando parliamo si distinguono: parole tronche, piane, sdrucciole e bisdrucciole. Personalmente, studiare lo spagnolo e le sue innumerevoli regole di accentazione mi ha aiutata a comprendere meglio l’uso dell’accento in italiano.

Anche il sé, in quanto pronome personale riflessivo di terza persona richiede l’accento acuto, per non confonderlo con il se, congiunzione con valore ipotetico.
Ma cosa succede quando il sé con valore di pronome personale è seguito da stesso?
Il dilemma del sé accentato
A scuola ci hanno sempre insegnato che il sé con funzione di pronome personale riflessivo perde il suo accento quando è seguito da stesso/i o medesimo/i. Ed ecco una prima eccezione alla regola.
Perché mai l’accento dovrebbe essere eliminato? E se leggessi se stessi, sarebbe il plurale di se stesso o la prima/seconda persona singolare del congiuntivo imperfetto del verbo stare?
Proviamo a fare un po’ di chiarezza: la regola generale prevede che il sé perde il suo accento quando è seguito da stesso.
Ma se consideriamo il punto di vista della linguistica, non possiamo non condividere quanto espresso dal grande Luca Serianni. Nella sua “Grammatica italiana – Italiano comune e lingua letteraria” afferma che la norma ortografica per la quale il pronome sé dovrebbe perdere l’accento se seguito da stesso è un’inutile complicazione.
La regola del “sé pronome riflessivo di terza persona si scrive sé, con l’accento” è buona perché è semplice e chiara. Lo stesso Vocabolario della lingua italiana Zingarelli registra la forma sé stesso, con accento acuto, come “preferibile” rispetto all’altra.
Ma a noi italiani piace complicarci la vita, introducendo un’eccezione all’eccezione.
Qual è, quindi, la forma corretta? La risposta è: entrambe
Secondo l’Accademia della Crusca “sebbene negli attuali testi di grammatica per le voci rafforzate se stesso, se stessa e se stessi non sia previsto l’uso dell’accento, è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica che ne possa stabilire il maggiore o minore grado di correttezza.”
Non temere quell’accento
Chi ha avuto la fortuna di essere allievo di Serianni non ha certo paura a scrivere sé stesso con l’accento. E da oggi, neanche io.
Invito pure voi a non temere quell’accento e a farmi sapere come scriverete sé stesso a partire da oggi.
Non vedo l’ora di leggere le vostre risposte nei commenti all’articolo.
Nel frattempo, buona grammatica a tutti!